I Bambini e i ragazzi indiani
I giocattoli (bambole, animaletti...) erano costruiti dalla madre con pelle di animali e decorati con aculei di porcospino colorati e peli di bisonte. Fra gli Hopi i bambini venivano avvicinati ai princìpi della religione facendoli giocare fin da piccoli con le bambole ka-china, intagliate nelle radici del pioppo americano, che raffiguravano gli spiriti dei defunti e che venivano anche utilizzate nel corso degli innumerevoli riti della tribù. I compagni di giochi erano numerosi: fratelli, sorelle, cugini naturali o acquisiti. Stando molto a contatto con gli adulti il bambino riproponeva spesso nei giochi le attività in cui li vedeva occupati. Attraverso i giochi e l'imitazione imparava presto il coraggio, la forza fisica e tutte le altre qualità che gli sarebbero state richieste prima di fare il suo ingresso nella comunità come adulto. È sempre Orso In Piedi che parla: «Se mio padre voleva insegnarmi qualcosa usava gli stessi metodi di mia madre. Non diceva: 'Devi fare questa cosa o quest'altra'.
Ma mentre era occupato in un lavoro mi diceva:'Figlio,quando un giorno sarai un uomo lo farai nello stesso modo'...» Il metodo educativo era dunque l'esempio, applicato comunque sempre con un grande rispetto verso il piccolo essere umano che si aveva davanti: difficilmente si arrivava a percosse o coercizioni. Lentamente, con pazienza, rispettando i tempi del bambino, lo si abituava alla sua futura vita da adulto. Un capo Crow, Molti Colpi, sintetizza così: «... Coloro che si occupavano della nostra educazione (nonni, padri, zii) erano attenti, scrupolosi e pazienti. Lodavano sempre una buona azione, ma contemporaneamente evitavano qualsiasi commento che avrebbe scoraggiato un giovane più lento nell'apprendimento. Un giovane che falliva o non riusciva in un compito aveva il doppio delle loro attenzioni, e questo fino a quando non avesse sviluppato appieno le sue capacità e raggiunto lo sviluppo completo dei suoi talenti». Un osservatore bianco, ammesso a un'importante riunione dei capi anziani hopi avvenuta circa trent'anni fa, raccontava stupito che nella sala scorrazzavano bambini e che uno dei capi che stava parlando si interruppe per prendere sulle sue ginocchia un piccolo in lacrime, e che riprese il discorso solo dopo averlo consolalo e rimesso a terra. Giorno dopo giorno, osservando e partecipando in prima persona a tutte le attività della tribù (cerimonie, feste, ma anche ogni aspetto della vita quotidiana), i piccoli crescevano: le bambine imparavano dalle altre donne come conservare la carne e cucinarla, come trattare la pelle e cucirla, quali radici o bacche raccogliere nel bosco, come seminare e coltivare; i bambini osservavano gli uomini mentre si preparavano per la caccia, imparavano quale legno utilizzare per l'arco e le trappole, come costruire frecce o canoe. Presso i Navaho ogni bambino aveva una pecora di sua proprietà che doveva accudire, anche se poi restava nel recinto insieme con le altre della tribù. Tutti imparavano canzoni e danze, ascoltavano le storie e i miti della tribù che gli adulti non si stancavano mai di raccontare. Giunte alla pubertà (avvenimento che coinvolgeva tutta la tribù in feste che potevano durare giorni e giorni), alle ragazze venivano affidati compiti precisi nell'ambito domestico, mentre i ragazzi erano spronati a mostrare coraggio e forza fisica superando prove di resistenza al dolore a volte estremamente dure. In molte tribù il periodo del corteggiamento partiva da questo momento e spesso veniva favorito lasciando completamente liberi i ragazzi di frequentarsi. Verso i quattordici, quindici anni i maschi potevano essere ammessi in una delle prime associazioni guerriere, ma dovevano in genere aspettare ancora un paio d'anni prima di poter partecipare a un'azione di guerra. Per diventare un grande guerriero il ragazzo doveva isolarsi in un luogo sacro, digiunare e aspettare una 'visione' attraverso la quale capire quale poteva essere il suo futuro spirito protettore (in genere un uccello o un altro animale), al quale rivolgersi per avere consigli sia in pace sia in guerra. Gli stravaganti e poetici nomi indiani, tradotti molto spesso assai male dai bianchi, potevano avere varie origini e non erano definitivi: nel corso della vita una persona passava tre tappe in occasione delle quali poteva cambiare il nome, e queste tre tappe venivano spesso celebrate con riti e feste. Un primo nome veniva dato al neonato: poteva semplicemente essere condizionato dai regali ricevuti dalla famiglia nell'occasione, poteva essere il nome del nonno o della nonna, poteva ricordare un'azione coraggiosa del padre, poteva collegarsi a qualche sogno fatto dai famigliari o ricordare un avvenimento particolare legato alla nascita (si racconta che quando nacque Cavallo Pazzo l'accampamento fu messo in subbuglio da un cavallo imbizzarrito che si mise a correre fra i tepee provocando spavento e disastri). Presso alcune popolazioni la cerimonia dell'assegnazione del nome aveva la stessa importanza del Battesimo nella tradizione cristiana. Fra gli Hopi avveniva venti giorni dopo la nascita del bambino: questi veniva lavato, gli si imbiancava il volto con la sacra farina di mais e poi, avvolto nella coperta più bella, veniva portato fuori per la prima volta dall'abitazione per essere presentato al Sole nascente, che lui non aveva ancora visto. In alcune tribù, arrivati alla pubertà i ragazzi potevano ricevere un altro nome (in genere scelto dal padrino), che si riteneva potesse assicurare longevità a chi lo portava e che aveva quasi sempre un significato legato alla sessualità.
In seguito, di solito in coincidenza con la prima azione di guerra di un giovane, al suo ingresso in un'associazione guerriera o in relazione a un qualche fatto importante, il nome poteva essere ancora cambiato (la scelta questa volta era generalmente lasciata al nonno).
da una Storia degli Indiani del Nord America- D.Guasco