Perché Donehogawa
Ho scelto il nome di Donehogawa, (capo degli Irochesi - Seneca) conosciuto come Ely S. Parker dai bianchi, perché nonostante abbia fatto molto per il suo Popolo, sono
pochi quelli che lo conoscono.
Donehogawa vuole dire “Custode della Porta Occidentale dell’Ultima Dimora degli Irochesi”. Donehogawa è stato il primo Nativo Americano ad essere nominato Commissario degli Affari Indiani, dal Presidente Ulysses Grant, e in questo ruolo ha fatto molto per la sua gente.
Tutti conoscono i grandi “Capi indiani” sono ricordati soprattutto perché hanno combattuto contro l’uomo bianco, e molte volte l’hanno sconfitto: ma siccome la storia l’ha scritta proprio quest’ultimo, quando i soldati massacravano “indiani” inermi, vedi la strage sul fiume Whicita ad opera del Colonnello Custer, si trattava di una grande battaglia seguita da una grande vittoria; ma quando gli “indiani” nel corso di una battaglia, vedi Little Big Horn, sconfiggevano le giacche blu, si trattava di un massacro.
Questo vuole essere, nel mio piccolo, un omaggio ad un uomo che ha fatto molto, affinché il suo Popolo avesse almeno una piccola parte di quello che gli spettava: del resto il suo popolo era nella sua terra, i bianchi no, erano andati a casa degli “indiani”, e con la scusa che portavano la civiltà, li hanno cacciati e massacrati.
Mimmo
Discorso di Donehogawa
“Sebbene questo paese fosse un tempo interamente abitato da Indiani, le tribù che occupavano i territori che ora costituiscono gli stati a est del Mississippi, e molte delle quali erano un tempo potenti, sono state sterminate ad una ad una dopo aver tentato invano di arrestare l’avanzata della civiltà verso l’Occidente… Se una qualsiasi tribù protestava contro la violazione dei suoi diritti naturali e sanciti dai trattati, i membri della tribù venivano spietatamente trucidati o trattati come cani… Si presume che sia stato lo spirito umanitario a dettare la politica iniziale dello spostamento e della concentrazione degli indiani nel West per salvarli dalla minaccia dell’estinzione. Ma oggi, a causa dell’immenso aumento della popolazione americana, e dell’estensione dei suoi insediamenti in tutto il West, al di qua e al di là delle Montagne Rocciose, la razza indiana corre il rischio di essere rapidamente sterminata, rischio che non ha mai corso così da vicino in tutta la storia del nostro paese.
Donehogawa (Ely Samuel Parker)
il primo commissario indiano agli Affari Indiani
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“Gli unici indiani buoni che abbia mai visto erano morti”
Generale P. Sheridan
Ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti
Se il selvaggio non accetta la civiltà che noi gli abbiamo portato, chiedendogli soltanto di rinnegare i suoi antenati, il suo modo di vivere, la sua spiritualità e la sua religione, il suo rispetto per la natura, mantenere la parola data, rispettare i trattati (da noi sistematicamente violati), se non sa rinunciare a tutto questo non si lamenti se diventa il passato.
E quando capita, non fa poi tanta differenza sé anziché dare una lezione agli indiani ribelli, in mancanza di questi, si dà agli “indiani buoni” delle riserve, perché lo sappiamo bene che danno ospitalità ai ribelli, a coloro che non rispettano le leggi del Grande Padre Bianco (Wounded Knee e Sand Creek insegnano). E, accidenti, se proprio non riusciamo ad ucciderlo con l’alcol, con la sterilizzazione forzata delle donne, con le scorie radioattive che scarichiamo nelle acque delle loro riserve (e di questo possiamo ringraziare le multinazionali), allora seppelliamoli definitivamente nelle nostre “confortevoli” prigioni.
Accusiamoli di qualsiasi nefandezza, visto che bruciando le loro case con i familiari dentro, non serve a farli tacere (un esempio è quello di John Trudell, poeta e cantante nativo americano).
Condanniamoli a morte, ma non uccidiamoli subito: teniamoli in attesa per dieci, quindici o venti anni prima di eseguire la sentenza (come nei casi di Fernando E. Caro, Ray Allen e altri); facciamogli pagare il vitto e l’alloggio, perché non meritano la civiltà che tanto generosamente gli abbiamo dato. Rendiamogli la vita dura all’interno del carcere, ma soprattutto togliamogli la loro identità, libertà e dignità, e con un po’ di fortuna si toglieranno da soli la loro vita: non più condannati a morte, risparmiando i soldi dello stato, ma suicidi (come i giovani lakota nello scorso inverno), e quindi contro la vita, contro le leggi del Signore.
E tutto questo con buona pace dei cosiddetti comitati che si battono per i diritti dei selvaggi, e insinuano che li trattiamo come cittadini di serie b (e pensare che abbiamo delle leggi che li tutelano come il Major Crime Act).
Dovremmo fare un monumento al Generale Sheridan, uomo lungimirante, che più di un secolo fa aveva risolto il problema indiano, e le sue parole sono scolpite nei nostri cuori:
“gli unici indiani buoni che abbia mai visto erano morti”.
Sacrosante parole.
Un buon cittadino americano
Marzo 1998 – Mimmo Carboni ’98 copyright mc98
Ovviamente questa “lettera” è una provocazione, non l’ha scritta nessun cittadino americano. È stata scritta per essere messa in un pannello durante una mostra di quadri fatti da un Indiano Yaqui, Fernando E. Caro, condannato a morte e in attesa della sentenza (non so più niente dei lui). Lo scopo della mostra era quello di raccogliere fondi per permettergli di pagarsi un avvocato, comprarsi generi di prima necessità.
Purtroppo molti dei visitatori hanno creduto che fosse vera, e molti, purtroppo, condividevano quello che c’era scritto.
Mimmo